Piazza Belli

Piazza Belli: la scultura dedicata al poeta romano

Piazza Belli non è tra le più note piazze di Roma, se non per il fatto che ferma qui il tram che dalla Gianicolense, attraversando molti quartieri della città, porta nel cuore di Trastevere e, da pochi anni, fino a Piazza Venezia. Tutti i turisti ed i romani che decidono di raggiungere Trastevere con i mezzi pubblici ci sono passati almeno una volta nella vita, ma pochi hanno davvero notato la piazza e la scultura dedicata al famoso poeta romano che le da il nome, Giuseppe Gioacchino Belli.

Piazza Belli è poco più di un giardinetto inghiottito dal caos del traffico urbano e non molto curato, che scompare rispetto alla vicina e più famosa Piazza Trilussa, luogo di incontro prediletto dai giovani per iniziare la movida trasteverina.

Piazza Belli

Il punto cardine della piazza è l’imponente monumento dedicato a Giuseppe Gioacchino Belli, in cui il poeta dialettale poggia la mano destra su una ricostruzione della spalletta del ponte Fabricio, al cospetto di rappresentazioni del padre Tevere con la Lupa. Sul retro sono rappresentati dei popolani intorno alla Statua di Pasquino, una delle statue parlanti di Roma. Sulla scultura, in travertino e datata 1913 (in onore del cinquantenario della morte del poeta) è posta l’incisione “AL SUO POETA G.G. BELLI IL POPOLO DI ROMA MCMXIII“.

Ma chi è Giuseppe Gioacchino Belli?

E’ un poeta, nato, cresciuto e morto a Roma alla fine del 1700. Di famiglia benestante, compose migliaia di sonetti in vernacolo romanesco cercando di dare voce ai problemi del popolo, come lui stesso scrive nell’introduzione alla sua opera: «Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.»

Piazza Belli Piazza Belli

Vi riporto uno dei suoi sonetti più famosi:

LI SOPRANI DER MONNO VECCHIO

C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
Mannò ffora a li popoli st’editto:
«Iö sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
Sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
Pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
Ché la vita e la robba Io ve l’affitto.

Chi abbita a sto monno senza er titolo O dde
Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
Quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».

Co st’editto annò er boja pe ccuriero,
Interroganno tutti in zur tenore;
E arisposeno tutti: È vvero, è vvero.

 

Per approfondire l’argomento vi consiglio i seguenti link:

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