Il più bel male del mondo, il mal d’Africa

C’è stato un periodo della mia vita in cui mi ha incuriosito tanto quella che pensavo essere esclusivamente una diceria popolare: se vai in Africa, ma l’Africa vera, quando torni, vieni assalito dal mal d’Africa. Cosa fosse, nello specifico, non era dato saperlo ma tutti, compresi blogger di una cera esperienza, parlavano di questa piacevole patologia post viaggio al sud del Sahara…

Già, perché prima di dire qualsiasi altra cosa, è bene premettere che gli amanti dell’Africa distinguono il continente in almeno tre zone: una, quella più a nord, la considerano un po’ un anello di congiunzione tra l’Europa ed il continente nero; l’altra, il Sud Africa, è un po’ l’isola felice, posta all’estremo del continente ma, a causa anche della forte immigrazione, specialmente olandese, degli anni passati, troppo simile all’Europa e troppo ricca per essere paragonata agli stati circostanti; la terza, l’Africa vera, è quella che molti definiscono anche il “continente nero”, ovvero quella parte selvaggia, fatta di incredibili vegetazioni che si danno la mano con deserti ed aree aride…

Quando si decide di andare nell’Africa vera, ci sono mille opzioni diverse e soprattutto con gradi di difficoltà differenti. Io, pur essendo un viaggiatore avventuroso, ho optato per una soluzione medio-soft, eleggendo il Kenya quale meta del mio viaggio.

Il Kenya è una nazione incredibile: da un lato c’è Nairobi, la capitale, che ospita milioni di persone ed è anche il principale centro economico del paese; dall’altro, invece, ci sono la costa ed i parchi naturali dove è possibile fare il safari. Io vi consiglio vivamente di segnare nella vostra agenda il safari, perché va fatto, almeno una volta nella vita!

Pronti via ed arriviamo a Nairobi dove, all’aeroporto, ci aspettava Banco, un simpatico keniano di Malindi che organizza escursioni e tour nella sua nazione, per portarci all’Amboseli, il parco naturale che nasce alle pendici del Kilimangiaro. Qui una guida preparata e capace è indispensabile, sia perché i percorsi non sono sempre facilmente riconoscibili ma soprattutto perché per vedere certi animali bisogna sapere dove andare e come approcciarsi. Banco in questo era un maestro, sembrava parlasse agli animali, pareva li conoscesse alla perfezione e fosse uno di loro: quando voleva vedere una specie, sapeva sempre dove trovarla. Dopo l’Amboseli abbiamo visitato il parco dello Tsavo, caratterizzato dal colore rosso della terra. Oltre all’emozione di vedere leoni, giraffe, elefanti e tante altre specie a stretto contatto, un’immagine indelebile è il cielo stellato, di notte, che si osserva dai campi tendati.

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Si, perché, sia chiaro, il Safari è il Safari e non c’è possibilità di dormire all’Hilton o al Ritz; ci sono i campi tendati (per carità, anche in questo caso di varie categorie) e la mattina ci si alza molto presto perché è il momento migliore della giornata per gli avvistamenti.

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Dopo il Safari (che è un’esperienza, come dicevo, da fare assolutamente anche se, a mio parere, per non più di tre giorni) siamo stati a Watamu, sulla costa, dove il mare è davvero molto bello e la vita scorre lenta, al ritmo africano, che, ringraziando il cielo, non è scandito dai nostri impegni frenetici. Loro hanno una parola magica, “pole pole”, che, in pratica, vuol dire “piano, rilassati”. E ne hanno un’altra, che poi è diventata una canzone, che è “Jambo”, ovvero “ciao”.

I keniani sono un popolo meraviglioso: non hanno niente, o comunque hanno poco, ma sono ricchi dentro…sono ricchi perché hanno la forza di ridere sempre, di essere felici, accoglienti, ospitali.

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Ci sono due cose che mi piace raccontare di questa mia esperienza: una, il mal d’Africa, la lascio per la chiusura, mentre l’altra, più toccante, è quell’insegnamento che spesso non si trova sui libri, ma che i viaggi hanno la forza di insegnare ed incidere dentro le persone.

Abbiamo chiesto a Banco di visitare un orfanotrofio locale, ma non uno di quei pochi orfanotrofi gestiti da europei, bensì uno gestito da keniani. Mai avremmo pensato di trovarci di fronte a tanta povertà unita ad un’infinita dolcezza. In una capanna (perché, vi dico, non è enfasi, ma di capanna si trattava) di poco più di 15 metri quadrati, fatta di sterco e fango, giacevano per terra circa 25 bambini, dai 2 ai 13 anni. Loro non hanno niente, sono figli della cultura Masai di cui ci sarebbe tanto da dire e che, purtroppo, mette al mondo bambini senza essere in grado di crescerli.

Erano li, intorno a noi, a cantare “Jambo” per darci il benvenuto. Erano li, con i loro corpicini esili e ci guardavano incuriositi, forse un po’ intimoriti, ma probabilmente speranzosi che avessimo qualcosa per loro. Occhi grandi, profondi, segnati, come non ci si aspetta da un bambino. Una di loro, la più grande, parlava qualche parola di inglese. Abbiamo chiacchierato un po’,  è stato bello, sia per lei che per me. Il mio articolo non ha altre finalità se non quelle di raccontare il mondo ma, dopo un viaggio in Africa, chiedetevi sempre se tutte le volte che vi lamentate avete ragione di farlo. Io ho scoperto di no.

La zona di Watamu ha un sacco di cose belle da fare: c’è una zona di mare che chiamano Sardegna 2 perché l’acqua è così pulita da ricordare le coste sarde; poi c’è la “Fornace del Diavolo” o “The Hell’s Kitchen” che è un canyon molto particolare, perché composto con differenti formazioni calcaree di diverso colore. Ancora, a Shishale c’è la spiaggia dorata, perché effettivamente la sabbia luccica al sole e sembra d’oro.

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Ma c’è una cosa dell’Africa che, una volta tornati a casa, non potrete mai dimenticare: i tramonti. Si, quelli che vedete in tv, con quel colore arancione intenso macchiato dalle ombre degli animali in lontananza, non sono frutto della tecnologia e delle illusioni ottiche, ma sono veri. E’ uno spettacolo unico, meraviglioso, indescrivibile. Ed è una delle forze dell’Africa.

Il Kenya è questo e molto di più: dopo circa 15 giorni ho lasciato amici che sento grazie a facebook o alle mail e che mi hanno insegnato a parlare un pò di swahili; ragazzi con cui ho trascorso piacevolmente del tempo, tanto diversi eppure tanto uguali a me.

Ed è questo il famoso mal d’Africa. Quella sensazione indescrivibile, quell’emozione prorompente, quel sentimento interiore che il viaggio è capace di lasciarti, nonché il richiamo che, una volta tornati, il continente nero esercita su di te. Perché quello che la pubblicità di una crociera ha fatto diventare uno “spot”, per l’Africa invece è la realtà. Lo chiamano “mal d’Africa” ma, a dire il vero, sarebbe più corretto chiamarlo “bene d’Africa”…buon viaggio…!

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(Testo e foto di Sabino Sernia)

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3 commenti

  1. Il mio sogno nel cassetto, quello grande che non sai mai se riuscirai a vedere avverato, è proprio l’Africa. Spero un giorno di poter mettere piede in quell’Africa che tu hai raccontato con questo post. Grazie per aver scritto queste parole.

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